Una seconda edizione di “A-sham. Festival di cucina araba” a Haifa non era affatto scontata. Invece, esattamente un anno dopo il debutto, Nof Atamna-Ismaeel, ideatrice e direttrice artistica del Festival, stravolta ma raggiante, si ferma cinque minuti al Pub HaOgen, storico indirizzo del Porto di Haifa, per scambiare due parole con Braciamiancora. Tra un’informazione e un saluto ai passanti che la riconoscono (Nof trionfò a MasterChef Israele nel 2014) la “cuoca scienziata”, microbiologa con Ph.D. al Technion di Haifa (istituto di ricerca scientifica israeliano simbolo di eccellenza a livello internazionale) riprende il discorso da dove l’avevamo lasciato l’anno scorso, il vero obiettivo dietro l’operazione del Festival: una scuola di cucina arabo-ebraica per studenti provenienti da tutto Israele. “La novità – spiega Nof, araba israeliana di 35 anni – è che adesso abbiamo un business plan, un budget e sappiamo esattamente il valore dell’investimento che dobbiamo trovare. Per quanto riguarda la location, io avrei voluto un posto fuori città, a metà strada da Tel Aviv e Haifa, ma la municipalità di Haifa ha compreso l’importanza dell’operazione ed è molto coinvolta. Pare voglia mettere a disposizione uno spazio interessante”.
Per sensibilizzare e attirare l’attenzione di istituzioni, opinione pubblica e media, Nof Atamna-Ismaeel si è inventata il festival “A-sham”, che in arabo significa “Levante” e si riferisce alla zona geografica tra Siria, Libano, sud di Israele e Giordania. La mission del Festival (che si è svolto dal 7 al 9 dicembre 2016) è preservare e mantenere vive quelle ricette di cucina tradizionale araba che rischiano di scomparire dalle tavole e dalla memoria. Per far questo, oltre 45 chef arabi (musulmani, cristiani e drusi) ed ebrei hanno collaborato all’interpretazione in chiave contemporanea di altrettanti piatti tradizionali della cultura levantina, come l’Arais – letteralmente “spose” – una pita ripiena di carne di agnello, grasso d’oca, cipolla, piselli, carote, zafferano e cardamomo, che è stata incoronata tendenza culinaria in Israele per il 2016.
A prepararla per noi e per il pubblico di A-sham – 45.000 presenze in tre giorni – è stato l’arabo cristiano Johnny Goric, Executive Chef al Legacy Hotel di Gerusalemme e Nazareth. Goric ha studiato cucina a Lione in Francia. Tornato a Gerusalemme si è affermato come astro nascente della cucina palestinese. Nel 2015 ha cucinato per l’allora presidente americano Barack Obama ed è stato giudice di MasterChef Palestina (chiuso per mancanza di sponsor dopo la prima edizione). Johnny Goric ha una presenza fisica imponente: alto, testa rasata e un tatuaggio sull’avambraccio con scritto “Signore Gesù Cristo” in aramaico perché “è la mia lingua, la lingua di Gesù, la lingua madre dell’ebraico”.
Qualche stradina più in là – tutto il Festival si svolge nella Lower City, un’area di appena un chilometro per quattrocento metri – c’è lo chef ebreo israeliano Erez Komarovsky, che vive in una casa in montagna al confine con il Libano. La prima cosa che ci dice è “cerco sempre di collaborare con tutti, in qualunque momento, l’ho sempre fatto, anche durante l’intifada. Per me, la pace viene dallo stomaco”. Mentre parla sta completando la preparazione del suo piatto, un kebab avvolto nella “lasinia” (letteralmente “lingua” in ebraico), una verdura con lunghe foglie altrimenti nota come “salvia di Gerusalemme”, servito su una pita drusa, sottilissima e croccante, cotta dallo chef Komarovsky nel tabun, un forno di argilla a forma di tronco di cono, con un’apertura sul fondo da cui si alimenta il fuoco.
“Nei piatti di tradizione palestinese ci sento il sapore della povertà. Ma i miracoli che può fare il cibo non li compiono altre forme di cultura: non il cinema o la letteratura, non l’arte e tanto meno la politica”. A parlare, davanti ad un bicchiere di vodka liscia ai tavolini del HaOgen Pub (praticamente il quartier generale di A-sham) è la seducente Hila Alpert, cuoca televisiva, critica gastronomica e autrice di una guida culinaria alla città di Haifa dove alle ricette si mischiano storie d’amore e desiderio. “Ci sono segnali positivi – continua Alpert – come la volontà della nuova generazione di cuochi arabi israeliani di entrare a far parte a pieno diritto della cucina israeliana, in grande ascesa a livello internazionale”. Legata all’Italia perché la madre visse vent’anni ai Piani di Sorrento, Hila parla italiano con un lieve accento campano. Per il food channel israeliano ha realizzato un viaggio in Italia in tre puntate alla ricerca di produttori e delle sue radici. L’anno scorso Hila partecipò ad A-sham come cuoca, quest’anno ha tenuto una conferenza sul cibo nella poesia e nella letteratura arabe.
Ancora qualche assaggio prima di salutare l’edizione 2016 di A-sham: Yahudi Misafer bulgur, pomodori e melanzane, piatto che gli ebrei di Siria chiamavano Muslem Harban (il musulmano in fuga) e i musulmani a loro volta chiamavano Yahudi Misafer (l’Ebreo errante); Mulukhiya in salsa di pesce e gamberi, che dice molto della religione: i cristiani in usano cucinarlo con foglie intere, i musulmani finemente tritate e i drusi non lo mangiano affatto perché temono che possa scatenare il loro desiderio sessuale; Harak Osba’u, a base di lenticchie, il cui nome significa “che brucia il dito”, cioè quello che succede quando non si può resistere alla tentazione di assaggiare cone le dita direttamente dalla pentola.
di Roberto Serrentino – 13 dicembre 2016