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UN MUSO DI CINGHIALE CHE EMERGE DA UNA ZUPPA NON FA PIÙ SCALPORE

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IL QUINTO QUARTO ORMAI È STATO SDOGANATO, LO SA BENE RENÉ REDZEPI NOTO CHEF DANESE CHE COL MUSO DI CINGHIALE NON HA OTTENUTO IL CLAMORE CHE CREDEVA IL GINGHIALE QUINDI SOLLEVA ALTRI DIBATTITI E SONO QUELLI RELATIVI ALLA CREAZIONE DI UNA NUOVA FILIERA DELLA CARNE 

di Alessandro Creta per italiaatavola.net

Aveva già colto di sorpresa tutti quando, a inizio 2023, annunciò la chiusura del Noma, da molti considerato il miglior ristorante contemporaneo a livello mondiale (e non a caso vincitore della 50 Best nel 2021).

Ora René Redzepi, uno che storicamente ai fornelli è (quasi) sempre riuscito a stupire e a creare scalpore, ci ha riprovato. Nessun annuncio particolare stavolta, ma una ricetta che in pochi giorni ha già fatto discutere parecchia gente.

Lo chef danese con origini albanesi se ne è uscito fuori con una preparazione a base di cinghiale. “E dove sta la novità”, direbbe più di qualcuno considerando come il cinghiale non sia affatto una stranezza gastronomica.

A ben vedere, però, il patron del Noma ha realizzato una zuppa a base di muso di cinghiale, qualcosa insomma che sposa appieno il concetto di recupero e rivalorizzazione del quinto quarto.

Il tutto testimoniato via social con una domanda da parte dello chef: “Riusciresti a mangiarlo?, mostrando il naso dell’animale spuntare dal suo brodo. Una scena che a qualcuno può esser sembrata, comprensibilmente, forte. 

REDZEPI, IL CINGHIALE DOPO LE FORMICHE E IL CERVELLO DI RENNA

L’effetto sorpresa stavolta Redzepi l’ha solamente sfiorato, al contrario di altre circostanze in cui alcune sue creazioni avevano creato clamore e, va detto, anche un po’ di sdegno.

Non è stata questa in realtà la prima circostanza in cui mister Noma si è affidato al quinto quarto, anzi. Citiamo la volta in cui inserì in menu il cervello di renna (nel 2021) servito direttamente nel suo teschio, così come quello di germano reale (2020) sistemato nel becco, non proprio piatti che tutti sognano (o sono disposti) a mangiare.

Anche le formiche vive speziate con foglia di citronella e coriandolo crearono dibattito, o ancora i gamberetti di fiume vivi serviti sul ghiaccio.

Insomma, a Redzepi è sempre piaciuto rimescolare e sparpagliare le carte dell’alta cucina contemporanea. Stavolta però la sensazione è stata di minor dirompente scalpore. 

Quinto Cuore by chef Paola Marsella

MUSO DI CINGHIALE, DOVE SI MANGIA GIÀ NEL MONDO?

Se quei piatti infatti destarono effettiva sorpresa lo stesso esito non l’ha raggiunto la zuppa di muso di cinghiale. I motivi?

Diversi, sicuramente il fatto di come ormai anche nell’alta cucina siano stati sdoganati, da anni, tagli e parti di animali fino a qualche tempo fa ritenuti di scarto, ora recuperati e valorizzati nel nome della sostenibilità e dell’etica affinché nulla di utile venga gettato dell’animale.

Il detto “del maiale non si butta via niente” sarà pure di origine contadina, ma ormai anche il fine dining, dopo i fasti, i barocchismi e le opulenze degli anni ottanta, si è allineato verso quest’ottica. Un ritorno al passato per la cucina presente e futura.

Il secondo motivo del “palo” di Redzepi è che, a ben vedere, la zuppa di grugno di maiale non pare essere questa grossa novità, anzi. Non pochi commenti al post dello chef informano come in Austria sia un piatto tradizionale delle feste natalizie e, nello specifico, della serata dell’ultimo dell’anno, mentre anche in Asia pare come il muso fritto sia una specialità ricorrente.

Se poi invece di cinghiale vogliamo parlare di maiale, come non prendere in considerazione la tipicità napoletana da strada chiamata “pere e o musso”, letteralmente piede e muso, bolliti e serviti assieme ad altre parti poco nobili, conditi con appena sale e limone.

Spezzatino di cinghiale

SOSTENIBILITÀ ED ETICA, L’ALTA CUCINA HA RISCOPERTO IL QUINTO QUARTO

Pare insomma ormai assodato come anche l’alta cucina abbia riscoperto, e rivalorizzato, il quinto quarto. Quei tagli un tempo considerati di “scarto” e secondari, ma che di scarto specialmente nel mondo contadino non sono mai stati (per mera questione di sussistenza tutto ciò che si poteva mangiare veniva di fatto mangiato).

Oggi nel fine dining sono spesso al centro di ricette dedicate. Un po’ come Cenerentola che, tolti i panni da semplice addetta alle pulizie, si ritrova vestita da principessa. 

Ciò che fino a qualche anno fa non veniva considerato, perché tagli poveri e di scarsa appetibilità anche estetica, oggi è stato rivalutato tanto da chi opera ai fornelli quanto dai clienti. E per fortuna, verrebbe da dire. 

Ecco insomma come le frattaglie del maiale, così come anche del pollo o dei bovini solo per fare un altro esempio, tornano al centro dell’attenzione, mentre preparazioni come il foie gras, decisamente più esose e simbolo di un’alta cucina che ormai pare avere ben poco da raccontare, sono al centro di dibattiti internazionali, critiche e stanno pian piano sparendo dai menu.

La “povertà” al potere? Più che altro sostenibilità ed etica: se è vero che stiamo pur sempre parlando di tagli considerati per l’appunto poveri, di secondo piano, l’utilizzo del quinto quarto è l’emblema di una cucina (più o meno alta) che cerca di avvicinarsi sempre di più ai concetti etici più o meno dichiaratamente vicini al tema dello zero waste, rispolverando valori di un passato contadino e, in quanto tale, dal retaggio umile.

La differenza? Sta alla base, perché se un tempo nulla veniva sprecato per esigenze di pura sopravvivenza, oggi nell’epoca del tutto e sempre (un terzo del cibo prodotto nel mondo viene sprecato ogni anno) sarebbe inconcepibile e insostenibile non aver rispetto di ciò che si ha a disposizione.

Se poi l’intenzione di sprecare meno cibo sia realmente sentita oppure figlia “di una sorta di convenienza commerciale” legata a un intero movimento di etica e sostenibilità, questioni ambientali e green oriented, questo non sappiamo dirlo. Ma in un verso o nell’altro, l’importante è che si sprechi quanto meno possibile.

QUINTO QUARTO, IL “TAGLIO” CHE DIVIDE I CONSUMATORI

Oggi il quinto quarto, chiamato così perché indica tutto ciò che non è compreso nei quattro quarti in cui sono normalmente sezionati gli animali durante la macellazione, non viene più considerato uno scarto, ma una materia prima da valorizzare dal sapore ricco, pronunciato e deciso.

Capace proprio per queste sue peculiarità gustative di dividere la clientela. C’è chi ama le frattaglie, c’è chi le odia. Per anni il quinto quarto, comprendente interiora, frattaglie, parti meno nobili e poco pregiate dei bovini così come dei suini, proprio perché povero è stato superficialmente considerato cattivo, quindi non degno di certi menu in determinati ristoranti. 

Da alcuni anni a questa parte trippa, rognoni, cuore, polmoni, fegato, milza, diaframma, animelle, cervello, lingua, coda sono invece al centro di piatti interessanti anche in ristoranti diversi dalle tipiche trattorie e osterie dalle tovaglie rosse a quadri e vino della casa.

Solo per fare un esempio, personalmente il piatto che più è stato capace di stupirmi tra quelli assaporati in ristorante di fine dining non è stato a base di foie gras tantomeno un filetto alla Rossini, niente che prevedesse tartufo o qualche taglio particolarmente pregiato, ma un’apparentemente semplice trippa con le pere e pecorino realizzato qualche anno fa da Danilo Ciavattini nel suo ristorante stellato di Viterbo.

A testimonianza di come anche con materie prime “povere”, domestiche verrebbe da dire, si possano creare grandi piatti.

CINGHIALI COME IL GRANCHIO BLU? PER IL WWF LA SOLUZIONE NON È LA CACCIA

Detto dei principi di etica e sostenibilità che hanno contribuito a riportare in auge il quinto quarto anche nell’alta ristorazione, rimane comunque il problema legato alla diffusione (quasi un’invasione) di un numero sempre crescente di cinghiali in non poche parti d’Italia, soprattutto del Centro.

Gli esemplari sono sempre di più, da mesi l’allarme suona al massimo del volume e con sempre meno cibo a disposizione nel loro habitat naturale ecco che gruppi di cinghiali si spostano progressivamente verso i centri abitati, spesso e volentieri diretti verso i cassoni dell’immondizia a cercare qualcosa da mangiare. 

Rovistano e creano disagi, non pochi, tra le vie cittadine, sono un pericolo per gli automobilisti e se non si riuscisse a frenare questa diffusione in futuro il problema potrebbe diventare ancor più serio.

Insomma, se in mare la specie invadente e invasiva più discussa è il granchio blu, sulla terra il problema attualmente più serio e d’attualità sembra proprio essere quello dei cinghiali.

Cinghiali figli oggi dell’incontro tra le specie autoctone italiane e quelle importate dall’est Europa negli anni 70 per l’allevamento. Ma capaci in non pochi casi di fuggire invadendo l’habitat naturale del cinghiale italiano, mescolandosene e dando vita a ibridi tra le due varietà.

Da qualche giorno è ripartita la stagione della caccia e nei prossimi mesi (si chiuderà a gennaio) i cacciatori per quanto possibile tenteranno di ridurre il numero di esemplari su tutto il territorio italiano. Basterà a contenere la diffusione? Difficile.

Tra le soluzioni discusse c’è quella di prorogare il termine della stagione venatoria, ma non è sicuramente questa la soluzione ultima e definitiva al problema.

“La gestione del cinghiale – fa sapere lo stesso WWF – è una questione complessa che investe e coinvolge molti settori della società e che proprio per la sua complessità richiede interventi basati sulle evidenze scientifiche e sull’analisi dei risultati delle pratiche messe finora in atto.

“Affidarsi solo alla caccia, come si fa da decenni, non risolve la situazione ma la peggiora. È necessario, sottolinea il WWF, un confronto aperto e tecnicamente supportato per aiutare a individuare azioni davvero efficaci…

“Più abbattimenti e pressione sulla popolazione adulta ci sono, più e prima i cinghiali rimanenti si riproducono e i gruppi familiari si destabilizzano: i numeri quindi aumentano anziché diminuire. Di conseguenza crescono sia i danni all’agricoltura sia gli incidenti stradali”.

La creazione (o il rafforzamento laddove già esistenti) di una filiera su tutto il territorio nazionale, o perlomeno nei territori in cui l’emergenza è più sensibile, potrebbe (chissà) contribuire a limitare il problema, permettendo una maggiore valvola di “sfogo” commerciale dei prodotti derivati dall’attività venatoria dei cacciatori.

15/10/2023

 

 

 

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