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FINISSAGGIO, COSA È E A COSA SERVE

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MOLTI ALLEVATORI LO PRATICANO ALTRI INVECE NO, PERCHÉ? MA SOPRATTUTTO CHE COSA SI INTENDE PER FINISSAGGIO? ED È VERO CHE MIGLIORA LA QUALITÀ DELLA CARNE? ECCO COSA DICONO GLI ESPERTI

Il finissaggio (o finishing in inglese) è un termine tecnico usato per indicare la fase finale di un processo produttivo. In pratica gli addetti ai lavori prima di immettere un prodotto nel mercato lo sottopongono a un lavoro di rifinitura. Ovvero lo perfezionano al fine di renderlo più appetibile agli occhi del consumatore.

Ora, applicato all’industria alimentare e in particolare a quella della carne, questo procedimento interessa l’ultima fase di ingrasso dell’animale. Di qualsiasi tipo esso sia – cavallo, suino o bovino – purché destinato alla macellazione. E a questo animale, negli ultimi mesi di vita, gli ingrassatori somministrano tutta una serie di alimenti, ad esempio soia e cerali, per rendere più grasse le sue carni. Perché?

Perché una carne ben infiltrata di grasso o come si dice in genere ben marezzata, diventa più tenera e saporita e quindi pronta per essere consumata a tavola. Dunque, è grazie al finissaggio se possiamo gustarci quelle appetitose T-Bone che ci regalano piacevoli sensazioni di morbidezza e succulenza. In caso contrario ci ritroveremo sul piatto delle bistecche dure, stoppose e decisamente insipide. Insomma, non proprio il massimo per riconciliarci col mondo quando siamo presi dai morsi della fame.

FINISSAGGIO: NON ESISTONO REGOLE FISSE

Ma una volta spiegato cos’è il finissaggio e soprattutto perché serve va fatta una precisazione. Non esiste una regola univoca per questa tecnica di affinamento. Gli allevatori, infatti, sanno che ci sono diverse varianti che contribuiscono a definirla. Ad esempio, la razza, il sesso e l’età dell’animale. Oppure la morfologia del terreno, vale a dire se è piano o scosceso, rigoglioso o secco, ricco di cereali o erba. Dunque, tutte queste varianti si incrociano per suggerire all’allevatore come finissare (o non finissare affatto) i suoi capi.

Una verità questa che si riscontra soprattutto nell’allevamento bovino con la sua grande varietà di razze e pascoli. Anche se poi per capire cosa veramente è in grado di offrirci un buon finissaggio l’appuntamento più che al super mercato sarà in una Steak House. Preferibilmente di alto livello. O se preferite in una macelleria con la m maiuscola.

FINISSAGGIO: COL GRASS FED NON CE N’È BISOGNO 

“Io quando devo macellare un bovino scelgo l’esemplare con la migliore condizione corporea, ovvero quello con le caratteristiche più idonee per essere macellato in quel particolare momento dell’anno”. Pietro Gambino, allevatore di Cattolica Eraclea (Agrigento), spiega perché non sottopone a finissaggio i suoi animali. Il suo è un allevamento grass fed per cui i bovini, lasciati liberi, si nutrono solo di quello che trovano al pascolo. Ma a seconda del periodo dell’anno, i capi presenteranno caratteristiche diverse. Caratteristiche dettate dal ritmo della stagione e dal tipo di vegetazione che incontrano. Ad esempio, in primavera la carcassa del bovino sarà più marezzata perché, essendoci più disponibilità di erba, l’animale tenderà a mangiare di più muovendosi di meno.

Ma più in generale Pietro rifiuta il finissaggio per ragioni etiche e salutari. “L‘ingrasso in stalla – afferma l’allevatore girgentano – stravolge i principi nutrizionali di una carne che fino a qualche mese prima si era sviluppata grazie ad un allevamento allo stato brado”. Con il grass fed, quindi, il concetto è molto semplice: meglio una carne meno tenera e saporita ma più salutare che una carne grassa e succulenta ma proveniente da box sovraffollati e maleodoranti.

FINISSAGGIO: IL GRASS FED  SPURIO

“Il finissaggio è come chiedere una ricetta segreta a un cuoco” scherza, ma neanche più di tanto, Placido Massella, allevatore della provincia di Verona e titolare di Mr Beefy, azienda fornitrice di angus. Un finissagio classico prevede, infatti, un’alimentazione a base di fieno, insilati di erba, mais, soia e sali minerali. Ma poi ogni allevatore è libero di scegliere il dosaggio che preferisce. E’ libero anche di togliere alcuni alimenti per inserirne altri oppure di allungare o accorciare la dieta. In genere questo problema non si pone per gli allevamenti grass fed, visto che l’alimentazione del bovino è essenzialmente ad erba. Il discorso però cambia se, come succede Per Palcido, l’allevatore segue anche un’altra linea.

“Io pratico quello che gli americani chiamano grain finished, ovvero un finissaggio a base di mais. In pratica per i primi 20 mesi nutro i miei angus con erba, fieno e insilati di erba, poi negli ultimi quattro aggiungo anche mais, soia e lino”. Insomma, la logica del grain finished è questa: se si rispetta il benessere animale, con un’alimentazione sana e stalle anti stress, gli ultimi mesi di ingrasso non pregiudicheranno la qualità della carne. Anzi la renderanno più morbida e saporita.

FINISSAGGIO: IL CASO DELLA PODOLICA 

“In genere chi alleva la podolica non ha strutture e quindi non sa nemmeno dove tenere i vitelli. Per cui sulla podolica il finissaggio non si fa,” afferma Gerardo Giuratrabocchetti, viticoltore di Rionero in Vulture (Potenza) ed esperto in zootecnia. Inoltre, la podolica, la razza bovina tipica della Puglia e della Basilicata, ancora oggi pratica la transumanza. Quindi, su di lei il lavoro di ingrasso risulta particolarmente complicato da realizzare. A meno che l’animale non venga lasciato a chi possa farlo. Vale a dire: a quei macellai, contadini o allevatori che abbiamo un minimo di strutture. Se non delle stalle almeno delle tettoie. In tal caso si somministrerà all’animale una dieta a base di granturco, avena, orzo e fieno.

“Ma – osserva Gerardo – a Sud non c’è una grande tradizione legata al finissaggio, come ad esempio al Centro o al Nord, per cui l’animale viene ingrassato un mese massimo due, non di più”. Dunque, con la podolica il finissaggio, vuoi per tradizione vuoi per carenza di strutture, è essenziale; dura giusto il tempo per dare alla carne quel minimo di tenerezza necessaria per gustarla a tavola.

FINISSAGGIO: LA PIEMONTESE UNA RAZZA CHE HA DIFFICOLTÀ A INGRASSARE

Un lungo finissaggio, invece, è indispensabile sulla piemontese.  Si tratta, infatti, di una razza magra che fa fatica ad ingrassare. Quindi, per rendere morbide le sue carni l‘ingrasso dura praticamente tutta la vita, non solo gli ultimi mesi che precedono la macellazione. “Il finissaggio della piemontese – afferma Guido Mina, fondatore dell’associazione Amici della Piemonteseinizia già con lo svezzamento, vale a dire: circa 25 giorni dopo la nascita”. Quindi, il vitello in questa fase, oltre a bere il prezioso latte materno, assimila anche un mangime molto nutriente. In questo modo l’allevatore ottiene due risultati: lo abitua al rumine e allo stesso tempo ne accelera l’accrescimento.

“Parliamo di un mangime ricco di proteine – afferma Guido – composto da mais, soia, crusca e polpa di barbabietola e che in genere funge da finissaggio per altre razze bovine come ad esempio la limousine. Poi, Dopo 12-14 mesi, si abbassa la quota proteica, ovvero la soia, per aumentare quella di mais. In questo modo si assicura all’animale un maggiore apporto di energia e infine, con fave e lino, si introducono nella carne anche i grassi nobili”. Vale a dire: i famosi omega 3 e omega 6, tanto benefici per il nostro organismo.

Per concludere il paragrafo sulla piemontese una precisazione è d’obbligo: la carne magra non è un difetto. È semplicemente una caratteristica dell’animale. Non a caso molti intenditori preferiscono le carni italiane a quelle straniere, notoriamente più grasse. Detto questo, però, non va dimenticato che il sapore e la “tenerezza” di una carne magra dipende dal lavoro attento e certosino di ingrassatori esperti e qualificati.

Finissaggio
Un bovino finlandese che mangia cioccolato

FINISSAGGIO: IL WAGYU CHE PASCOLA IN TIROLO

Da un bovino che fa fatica ad ingrassare ad uno che, invece, sviluppa molto grasso infra muscolare. Stiamo parlando del wagyu, alias il manzo giapponese. In Italia questo bovino pascola nel Tirolo, dove gode di aria pulita e bruca erba fresca di montagna. Ma, a causa delle rigide temperature invernali, non può sempre vagare libero per le valli. Viene, quindi, tenuto in stalla, dove consuma una razione composta da fieno, cereali, trebbia di birra e sansa di olio.

“Il fieno di alta montagna – spiega Stefan Rottensteiner, allevatore di Collalbo (Bolzano)conferisce sapore alla carne, i cereali – mais, avena e orzo – invece aiutano a sviluppare il grasso che poi con la sansa di olio diventa più oleoso e infine la trebbia di birra sostituisce la soia perché è un alimento locale e dunque lo preferisco”. Questo è il finissaggio dell’ultimo anno. Nei primi due anni, invece, i wagyu tirolesi si nutrono anche di latte (materno), lievito di birra, erba e cerali.

Inoltre, Stefan ha anche una linea grass fed, il cui sapore è diverso ma comunque ottimo. Parliamo infatti sempre di una carne molto marezzata. Quindi, il valore aggiunto della produzione di Stefan sta tutto in una dieta genuina che conferisce al suo wagyu un sapore decisamente raffinato.

FINISSAGGIO: LA CHIANINA, IL GIGANTE BIANCO

Infine, la chianina. La razza bovina che ci regala le famose fiorentine. Si tratta di una razza ad accrescimento lento, soprattutto gli esemplari maschi, con carni fondamentalmente magre e da questo punto di vista è simile alla Piemontese. “Ma attenzione – fa notare Fabio Filippucci, allevatore di Bevagna (Perugia) – la chiamano il gigante bianco”. Quindi, per quanto magra la chianina ha comunque una stazza notevole. Se le femmine superano i mille chili, i maschi vanno ben al di là di una tonnellata e mezza.

Fabio ci racconta che il Consorzio del vitellone bianco dell’Appennino centrale (l’associazione che fissa il disciplinare per l’igp della Chianina), per quanto riguarda l’allevamento, non fissa delle regole stringenti. Nel senso che ogni allevatore è libero di lasciare i suoi animali al pascolo o tenerli in stalla. Spesso però la scelta cade sull’allevamento stabolare dove i capi sono sottoposti a un finissaggio che dura quattro mesi. “In questi 4 mesi – spiega Fabio – il bovino continua ad alimentarsi con lo stesso mangime di prima. Un farinato composto da mais, orzo, crusca, e per la parte proteica, soia o favino. In più grazie al fieno assume anche le fibre”. Ma a partire dal 19 mese di vita, le dosi degli ingredienti cambiano. Aumenta il mais e rimane costante la percentuale di soia.

È ovvio però che ogni bovino ha una storia a sé. Quindi, l’allevatore deve monitorare costantemente i suoi capi: deve controllare se ad esempio assimilano bene gli alimenti o hanno problemi di rumine, oppure se sono più o meno precoci nella crescita e eventualmente decidere se variare i tempi e la composizione del finissaggio. Una scelta che comporta una produzione non certificata ma che non è detto costituisca un limite commerciale per l’azienda.

Articolo rieditato 24/06/2023 (prima pubblicazione, Gianluca Bianchini 03/09/2019)

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